Mie interviste a:
e incontri
ALEX ZANOTELLI
MALALAI JOYA
MARILDE TRINCHERO
BRUNA CONTI
VIAGGIO NELL’OMOSESSUALITA’ FEMMINILE
INCONTRO CON LA FAMIGLIA TENCO
IOLE DE SIMONE
CATERINA VETRO
CHANTAL CASTIGLIONE
OLGA BALTI
SALVO VITALE
ENRICO DI COLA
INCONTRO con ENRIQUE IRAZOQUI IL CRISTO DI PASOLINI
“L’acqua è la fonte madre, è la vita, ed oggi è l’oggetto di desiderio del capitale.”
Stralci di discorso dall’incontro con Padre Alex Zanotelli
Korogoro Nairobi
“ Sono arrivato a Korogocho il giorno 19 Ottobre 1990. Il giorno del battesimo di Gesù. Ho detto alla gente: “sono qui per ricevere il vostro battesimo”. Mi sono sistemato in una baracca, con poche pentole e cibo. Con pochissimo lì si vive, 20/30 euro al mese. All’inizio mi è saltato il corpo e la testa ho perso circa venti kg e psicologicamente ero distrutto, capivo l’assurdità del mondo, quanto il mondo mi sembrasse folle.”
“C’è un muro a Nairobi, un muro che è presente anche a Napoli, che divide il Vomero con Scampia che divide ricchi e poveri. Ho vissuto con la gente più emarginata a Korogocho, i ragazzini di strada, le bambine che andavano a prostituirsi in città, i molti malati di Aids.”
L’incontro con Geremia
“ C’è una collina dove arrivano i rifiuti dei ricchi a Korogoro. Un giorno ho incontrato un uomo Geremia che mi ha detto: “Padre perché non viene dove viviamo noi, mica siamo bestie!” Geremia viveva su quella collina, dove c’è la discarica. Decisi di andare, anche se un gruppo di cristiani mi sollecitarono a non farlo dicendomi “ti ammazzano, son criminali”.
Passai la notte a pensare e il giorno seguente mi recai sulla collina, trovai un immensa discarica, un cattivissimo odore che ti veniva sul viso spinto anche dal vento ed incontrai Geremia che mi disse: “non pensavo che voi bianchi manteneste le promesse”. Geremia mi spiegò tutto il sistema mafioso che c’era nella gestione della discarica. La gente era munita di un pezzo di ferro per prendere i rifiuti e poi riciclarli, rivendendo tutto.”
Tabu ragazzino di strada
“Tabu era un ragazzino di strada che viveva nella discarica. E’ morto ad undici anni di Aids.”
Le bambine prostitute
“ Migliaia di ragazzine vanno a prostituirsi in città e poi muoiono di Aids. Una sera portai alcune di loro in baracca da me sollecitandole e parlando con loro e chiedendogli di lasciare quella strada perché sarebbero morte di Aids. Mi dissero: “ Alex lo sappiamo, trovaci un lavoro. Perché o prendiamo l’aids o muoriamo di fame.” Mi dissi che facevo parte di quella razza bianca che sfrutta queste ragazzine.
Non ho mai costruito una chiesa a Korogoro perché la prima chiesa è il nostro corpo.”
Floris la bambina prostituta
“ Floris a 11 anni è entrata nel giro della prostituzione a 15 anni ha preso l’Aids a 17 anni è morta.
Andai a trovarla qualche giorno prima della sua morte. La madre l’aveva abbandonata. Le chiesi come stava e le chiesi cos’era per lei Dio, mi disse che “Dio è mamma.” Io non ci capii più nulla, visto che la madre era scappata due giorni prima, abbandonandola al suo destino. Le chiesi poi, per lei chi era il volto di Dio oggi. Rimase quasi cinque minuti in silenzio e poi mi rispose “sono io il volto di Dio”. Capii che Dio è così con loro, soffre con loro. Per me rimane un mistero la forza che ho trovato in queste persone. La forza anche della preghiera.”
L’acqua e le armi
Il governo italiano ha varato una spesa di 25 miliardi di euro per le armi. Le armi, quelle che abbiamo noi, fanno sì che esista questa superiorità su altre popolazioni del mondo. Il 20% della popolazione è armata fino ai denti. Per le armi sono stati spesi in totale circa 1530 miliardi. Il nostro sistema così come è fatto, che non è tanto basato sull’economia quanto sulla finanza, sta premendo sull’ecosistema. Tra trent’anni il petrolio finirà. Abbiamo bruciato petrolio in duecento anni. E la ricchezza nel mondo è in mano a 300 famiglie mentre circa tre miliardi di persone vivono con due dollari al giorno. Noi possiamo vivere senza petrolio, ma senza l’acqua no. L’acqua è la vita, è la fonte madre, ed ora il sistema capitalistico vuole privatizzarla. Multinazionali come la Nestlé, la Suez (che ha in mano l’Acea), la Veolia stanno mettendo le mani sull’acqua. Da uno studio dell’Onu emerge che si può vivere con cinquanta litri di acqua al giorno. In Italia ne consumiamo duecento e in America quattrocento litri al giorno. Dobbiamo ripensare tutto. Far nascere una nuova cultura. Di rispetto e di risparmio. Di bellezza e stupore di fronte alla natura. Sono impegnato nella battaglia per la difesa dell’acqua come bene comune. Si chiede l’abrogazione della legge Ronchi. Siamo riusciti a far passare due domande per il Referendum sull’acqua approvate dalla Corte Costituzionale. Poi ogni Comune, ogni comunità locale dovrebbe gestire le proprie risorse idriche.
Il referendum dovrebbe esserci a metà Giugno. C’è bisogno di creare una nuova cultura. Bisogna essere informati per informare. E soprattutto è nella nuove generazioni il futuro. Saranno loro che dovranno costruire questa nuova cultura di rispetto e attenzione.”
Padre Alex Zanotelli è nato a Livio (Trento) il 26 Agosto 1938, fa parte dell’ordine missionario dei Comboniani di Verona. E’ l’ispiratore ed il fondatore di più movimenti italiani che hanno l’obiettivo di creare le condizioni della pace e di una società solidale in cui gli ultimi abbiano cittadinanza.
Korogocho nella lingua locale Korogocho significa confusione, caos. Fino al 2001 padre Zanotelli rimase qui, in una delle baraccopoli che attorniano Nairobi, la capitale del Kenya. Ha dato vita a piccole comunità cristiane, ma anche a una cooperativa che si occupa del recupero dei rifiuti e dà lavoro a numerosi baraccati. Ha propiziato la nascita di Udada, una comunità di ex prostitute che aiuta le donne che vogliono uscire dal giro della prostituzione.
Dichiarazione di Assisi 30 Dicembre 2009 padre Zanotelli è tra i primi firmatari della Dichiarazione. Ad Assisi dal 27 al 30 Dicembre 2009 c’è stato il 64° Convegno giovani dal titolo “Il sasso nell’acqua” è stato steso un programma. Al primo punto si legge: “Noi crediamo che l’acqua è vita! La vita nasce dall’acqua: l’acqua è il cuore stesso della vita. L’uomo è acqua che cammina, che pensa.”
MALALAI JOYA
“La morte potrebbe facilmente sopraggiungere anche adesso,
ma non sarò io cercarla. Certo se la dovessi incontrare, e ciò è inevitabile, poco importa.
Ciò che importa è se il mio vivere o il mio morire abbia avuto un effetto sulla vita degl’altri.”
Malalai Joya.
“ Innanzitutto desidererei ringraziare la Fondazione Lelio Basso, per l’occasione fornita di poter parlare della condizione che affligge le donne in Afghanistan.
Vorrei ringraziare anche la vice-presidente del Parlamento Europeo Luisa Morgantini e il Senatore Francesco Martone e tutte le persone che hanno collaborato per la riuscita di questo incontro.
Questa presenza e questa possibilità oggi, davanti a voi, mi da ancora più coraggio, più forza e determinazione per combattere contro gli integralismi e fondamentalismi che sono presenti all’interno del mio paese.
Perciò ringrazio tutti i movimenti che mi supportano contro i fondamentalismi presenti in Afghanistan.
Sono passati ormai sei anni dall’invasione all’Afghanistan. Il governo dei Taliban è stato sostituito con quello dell’Alleanza del Nord. Un governo composto principalmente da criminali, criminali che hanno già governato in passato, nel 1992 e nel 1996, e che hanno compiuto incredibili efferatezze, tra le quali a Kabul l’uccisione di 65 persone e numerosi stupri su donne.
Alla fine, questi signori, sono solo differenti nei costumi dai Talebani. Parlano di democrazia, di principi, di diritti umani, ma in concreto non fanno assolutamente nulla.
Il loro comportamento va solo a discapito delle persone normali, della popolazione e dei civili perbene.
Concentrandoci sulla situazione delle donne, ora vi racconterò alcuni episodi abbastanza scioccanti su quello che avviene nel mio paese tutti i giorni.
Il numero dei casi di suicidio delle donne Afgane è il risultato della destituzione e dell’inesistenza completa della giustizia. I casi di suicidio delle donne, oggi nel mio paese, è impressionante, mai un livello così alto era esistito in passato.
Stando alle statistiche ufficiali, sembra che si possa parlare di circa 250 casi di suicidio, registrati solo nei primi mesi del 2007.
Vi porto tre storie. Tre storie di donne. Una ragazza di 18 anni è stata ritrovata impiccata. Si è uccisa perché non voleva essere venduta ad un uomo di 60 anni.
Un’ altra donna, chiamata Bibigul, si è chiusa dentro una stalla e si è bruciata, sono state ritrovate solo le sue ossa. L’ultima storia riguarda una ragazza chiamata Sana è stata rapita, torturata e successivamente anche stuprata.
Stando alle statistiche dell’Unifem (Fondo Nazione Unite per le donne. Soggetto, creato nel 1976 che fornisce assistenza finanziaria e organizzativa per soluzioni innovative dirette a promuovere l’avanzamento delle donne e l’uguaglianza di genere), il 65% delle 50mila vedove a Kabul e molte altre migliaia di donne nel Paese, vedono il suicidio come l’unica opzione per riuscire a sopravvivere all’attuale regime di maltrattamento e strumentalizzazione delle donne.
Il 95% di donne Afgane soffre di depressione. Ogni 28 minuti una donna Afgana muore durante il parto. L’aspettativa di vita di una donna Afgana è mediamente di 44 anni e le statistiche dicono che l’80% dei matrimoni non sono contratti liberamente,ma previe forzature.
Riguardo in particolare la situazione della zona nord dell’Afghanistan, dove i comandanti dell’Alleanza del Nord, (…)compiono crimini come rapimenti, stupri sulle donne, continuando a perpetrare l’idea della presenza dei Taliban come pericolo principale e necessita delle loro azioni. E questo non è assolutamente vero. Non ci sono Taliban nell’area del Nord.
Solo un quinto delle ragazze ha accesso all’istruzione primaria. Un ventesimo all’istruzione secondaria. E più di 200 mila bambini che vivono sotto il controllo dei Talebani sono privati di alcun tipo di educazione e istruzione.
Numerose donne in numerose aree dell’Afghanistan sono state uccise, quando hanno provato a esprimere le loro idee. In alcune zone non hanno neanche la possibilità di lavorare, non solo nella capitale Kabul, ma anche in altre città come Safi e Kandaar.
L’unico florido business in Afghanistan attualmente in espansione è la coltivazione del papavero da oppio. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite il 93% della coltivazione mondiale è Afgana.
Inoltre (the Mail) ha scritto il 21 Luglio 2007 che i quattro più importanti attori all’interno del business dell’eroina sono tutti Signori Membri del Governo Afgano.
Attualmente i Talebani con mezzi fascisti controllano l’area est, e ciò nonostante il Governo cerca di dialogare con loro, di coinvolgerli all’interno del dialogo politico.
Sottolineando poi nessun interesse per le vere problematiche che affliggono la popolazione, ma perseguendo semplicemente scopi politici.
Fondamentalmente tra i terroristi Taliban che perseguono la campagna anti-americana e gli attuali membri del governo che perseguono la campagna filo-americana non c’è alcuna differenza. A pagare per loro sono sempre le persone comuni.
A dispetto dei miliardi di dollari che sono stati versati nelle casse del governo Afgano, le persone, la popolazione civile non riesce a beneficiarne.
Infatti, secondo le correnti statistiche, solo il 2% degli Afgani ha accesso all’elettricità. Il 60% degli Afgani vive al di sotto del livello di povertà e ben il 40% è senza alcun impiego di lavoro.
Un recente sondaggio del Marzo 2007 condotto dall’Integrity Watch Afghanistan ha rivelato che il 60% degli Afgani ritiene che l’attuale governo sia tra i poteri più corrotti esistiti negl’ultimi vent’anni.
La battaglia che è stata condotta, dall’occupazione avviata nel 2001 millantava di portare democrazia e sicurezza in Afghanistan, mi chiedo, mi domando, dov’è questa sicurezza? Non esiste questa sicurezza. Penso anche a tutte le persone che si sono battute per liberare l’Afghanistan dal regime Talebano e che dalla loro lotta non hanno ricevuto il risultato aspettato.
Fondamentalmente l’intervento militare in Afghanistan è frutto solo di una strategia politica e del perseguimento di interessi economici da parte degli Stati Uniti, che hanno procurato solo la messa in pericolo della popolazione Afgana, pericolo costante e reale, che sarà sempre presente fino a quando l’interesse degli Stati Uniti per il mio paese sarà vivo.
La situazione dell’Iraq come la situazione dell’Afghanistan sono due casi esemplari per mostrare tutto quello che fin ora ho detto.
Il mio popolo, il popolo Afgano ha bisogno dell’aiuto della Comunità Internazionale. Non ha bisogno di un occupazione militare.
La storia ci ha sempre insegnato che nessuna nazione può liberare un’altra nazione.
Questa condizione che stanno vivendo gli Afgani probabilmente porterà ad una nuova reazione e ad una resistenza degli Afgani stessi contro questi occupanti.
Non abbiamo solo il bisogno del supporto Italiano, ma del supporto di tutta la Comunità Internazionale, dei movimenti pacifisti, dei movimenti per la liberazione dell’Afghanistan.
Non solo l’impegno di Luisa Morgantini a livello politico. Abbiamo bisogno dell’impegno di ogni singola persona, per aumentare la pressione sui nostri governi, per supportare le esigenze e le necessità del mio popolo. Un azione indipendente dalla politica Americana, la quale è semplicemente una presa in giro del termine democrazia o liberazione.
Quello che serve alla mia gente, da parte nostra è un supporto ai movimenti democratici per poter combattere i movimenti fondamentalismi.
Anche se sono passati sei anni non è ancora troppo tardi per poter agire e cercare di combattere il potere al governo. Noi siamo le uniche persone che possiamo dare speranza alla popolazione Afgana, la quale ovunque viene vessata da questi criminali.
Non solo, ma serve anche una pressione della Comunità Internazionale, nei confronti dell’Iran, Pakistan, Russia, i quali costantemente supportano i movimenti fondamentalismi all’interno dell’Afghanistan, i quali privano le persone a poter esprimere le loro idee.
Anche se sono stata cacciata ingiustamente dal Parlamento, farei di tutto per ritornare.
La mia situazione è sicuramente pericolosa e a rischio, ho ricevuto molte pressioni, ma la mia volontà è di ritornare a combattere all’interno del Parlamento.
L’80% del Parlamento Afgano è composto attualmente da Signori della guerra, Signori della droga e criminali, stando anche a quello che dice Human Rights Watch.
Io sono stata espulsa e una piccola minoranza di persone continua ancora a battersi per la Democrazia in Afghanistan.
La mia domanda è, se l’80% di queste persone, dei parlamentari sono criminali, come possono fare gli interessi della popolazione?
La situazione del parlamento Afgano è una caricatura della democrazia. Più di una volta da alcuni di questi “buoni parlamentari” ho saputo di quello che avviene nelle stanze del potere.
Come ad esempio di giornalisti picchiati, anche se la costituzione, la nostra costituzione, sancisce la libertà di espressione. La maggior parte delle persone che sono oggi al potere è contraria alla partecipazione delle donne nella sfera pubblica e politica, e si oppone a qualsiasi tipo di secolarismo, impugnando le leggi dell’Islam.
Il mio rammarico è per il silenzio delle persone che lottano per queste battaglie democratiche.
Ho tanti tanti esempi di quello che accade nel parlamento Afgano, le numerosi violazioni da parte di questi governanti che si nascondono dietro ad una parvenza di democrazia.
Concludo, lasciandovi con questa frase: chi lotta può fallire, ma chi non lotta ha già fallito.
*Qui di seguito il discorso tenuto da Malalai Joya il 12 Ottobre 2007 alla Fondazione Lelio Basso a Roma.
BRUNA CONTI
Bruna Conti ha curato il carteggio edito da Feltrinelli “Un viaggio chiamato amore” Lettere 1916-1918. Ha tenuto e curato l’Archivio Sibilla Aleramo e l’Archivio Luchino Visconti presso la Fondazione Gramsci di Roma e l’Archivio Pier Paolo Pasolini. Ha curato testi sulla vita e l’opera di Sibilla Aleramo.*
La figura di Sibilla Aleramo sembra essere in bilico tra una personalità dannunziana e una donna antesignana del femminismo, per scelte, coraggio, e modalità relazionali all’epoca impensabili per una donna. Quali di questi due aspetti prevale di piu’ secondo lei?
“ Sibilla è una donna che vive tutta la sua vita fino alla fine in una tensione altissima tra forza e fragilità, è fragile e forte al contempo, tutto questo sicuramente reso ancora più estremo da un suo altissimo coraggio, Sibilla è una persona molto coraggiosa per l’epoca, consapevole che se avesse lasciato il marito (1) non avrebbe avuto l’affidamento di suo figlio, consapevole altrettanto che senza il consenso del marito non avrebbe ricevuto i soldi dati a lei in eredità dallo zio. Tutte queste cose sono molto chiare in lei. Nonostante tutto lascia il marito. L’Aleramo poi, può considerarsi una femminista ante-litteram, che punta più alla liberazione della donna che alla sua emancipazione.Mentre la sua personalità dannunziana è più nel suo gusto estetico. Sibilla ad esempio metteva petali sul letto non era una donna come dire di certa bassezza anche sessuale, come nel film di Placido, l’Aleramo non sarebbe mai andata in una bettola o avrebbe vissuto atti d’amore in posti come il vagone di un treno”.
Molte femministe ritengono Sibilla Aleramo una vittima degli uomini. Una che vive solo in funzione di loro. Dall’ altra parte, l’amica e scrittrice Matilde Serao le dice: Sibilla, sentite, procurate di non innamorarvi più: voi soffrite troppo, quando amate”. “Vittima” dunque più del suo stesso amore?
“ In realtà vive tutte le sue relazioni più in funzione di una necessità che d’ incontri voluti dal destino o in maniera libera. Sibilla non riesce a star sola. Ha bisogno continuamente di un uomo. Oltretutto la maggior parte degli uomini con cui ha stabilito relazioni erano quasi tutti molto più giovani di lei. Con Franco Matacotta(2) si passavano ben quarant’anni di differenza. Una storia durata dieci anni con tutte le sue ombre, una storia questa anche con un nodo, come dire, sado-masochista.L’Aleramo tendeva al legame. Ogni amore come se fosse per sempre.”
Il rapporto con Dino Campana sembra essere una continua fuga e un continuo rincorrersi.
“ Per capire gli spostamenti di Sibilla Aleramo basta seguire Dino Campana. Dove lui andava lei di conseguenza lo seguiva. Campana era un uomo imprevedibile. Capace di qualsiasi cosa all’ultimo minuto. Un grande camminatore tra l’altro. Poteva camminare per giorni. Senza fermarsi. Il loro poi era un rapporto violento e passionale. Vennero spesso alle mani entrambi, a picchiarsi, come testimoniano i racconti della famiglia Cecchi. Campana la ingiuriva verbalmente e fisicamente, “un martirio” appunto che non poteva essere portato avanti a lungo, così che sarà l’Aleramo a troncare questa storia, che forse, secondo me, poteva anche durare di più. Poi alla fine la loro storia d’amore si consuma in pochi mesi d’incontri, aldilà che le lettere comprendano un periodo maggiore che va dal 1916 al 1918.”
Il rapporto tra Dino Campana e Dannunzio come è da considerarsi. Di stima o no? In un passo delle lettere Campana si rivolge a Sibilla facendo riferimento al Poeta di Fiume, quasi fosse un punto di riferimento.
“ Dino Campana non amava Dannunzio, anche se lo definì in maniera geniale “il vate grammofono”. Ma non l’amava. In qualche modo però lui era il punto di riferimento dell’epoca, e quasi tutti gli scrittori e letterati ci si dovevano comunque confrontare”.
Nella ricostruzione del film “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido, filmicamente emerge la sofferenza psichica di Campana, che va ad acuirsi anche con la violenza fisica subita da Sibilla Aleramo ancora bambina (il cui violentatore poi diverrà suo marito) è un aspetto che secondo lei ha contributo a turbare la stabilità già molto fragile del Poeta?
“ Più che la violenza, Campana era un uomo molto geloso di Sibilla. Geloso e ossessivo. La vita di Sibilla contornata da tanti amanti e relazioni non ha certo procurato al Poeta stabilità, anzi al contrario, una donna come lei, tendeva a destabilizzarlo ulteriormente. Questo sicuramente ha finito con il turbare e il rendere ancora più fragile il suo stato mentale e fisico così precario. Per quanto riguarda il film credo che ci siano state grosse intuizioni soprattutto nei flash-back, nel rapporto dell’Aleramo con la sua famiglia, con il padre o per quanto riguarda la malattia mentale e il tentato suicidio della madre”.
La poetica di Campana è molto legata agli elementi naturali, fonti, cieli, chimere.
“ In Campana vive il mito del viaggio. Tutta la sua vita così come la sua opera è attraversata da continui spostamenti. I suoi versi che apparentemente possono sembrare disconnessi in realtà hanno una logica ben precisa. E’ un grandissimo Poeta. La sua opera lo dimostra ancora adesso. E poi era un solitario”.
L’ambiente letterario di allora capiva la grandezza poetica di Campana da qui gli asti e le cattiverie intorno al Poeta, così come il fatto che la prima stesura dei Canti Orfici, Il più lungo dei giorni fosse fatto sparire.
“ Io non credo alla malafede di Papini o di Soffici, credo che il fatto sia ancora più grave o più triste. Incuranza. Se avessero fatto sparire intenzionalmente il manoscritto, avrebbero riconosciuto in qualche modo la grandezza poetica di Campana, una sua superiorità. Ritengo invece che ci sia stata una sorta di negligenza. Anche perché Campana era uno che bussava continuamente alle porte, che si interessava alla pubblicazione del suo manoscritto in maniera anche qui un po’ ossessiva. Credo alla versione della famiglia Soffici, e che l’opera sia stata come dire “dimenticata”, “non curata” e ritrovata così dopo tanti anni in un trasloco”.
(1) Rina Faccio sposerà Ulderico Pierangeli, impiegato nella fabbrica di suo padre, dopo averne subito la violenza, il fidanzamento e il successivo matrimonio verranno accelerati anche dalle chiacchiere che si andavano diffondendo in paese. Sibilla Aleramo ha quindici anni quando gli insistenti corteggiamenti di Ulderico sfoceranno nella violenza così raccontata dalla scrittrice: ” un mattino fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito, che era per finire in urlo, quando l’uomo premendomi la bocca, mi respinse lontano” in Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli, edizione fuori commercio.
(2) Il 23 Ottobre 1935 Sibilla Aleramo, che sta nel frattempo vivendo la sua non facile relazione con Salvatore Quasimodo, riceve da Fermo una lettera di Franco Matacotta e una sua foto con dedica a “Sibilla Aleramo prima poetessa d’Italia”. Il giovane allora non ancora vent’enne, è in procinto di trasferirsi a Roma per iniziare gli studi universitari e vuole andare a trovarla. L’incontro avverrà nel Febbraio 1936 dopo la breve convalescenza dell’Aleramo a Capri in seguito all’intervento operatorio subito. Il 7 Marzo incominciamo la relazione e la convivenza nella soffitta(a via Margutta). Il rapporto durato, pur con lacerazioni, dieci anni, verrà annotato quotidianamente dall’Aleramo nei suoi diari, insieme agli eventi bellici che seguiranno e agli incontri con i personaggi letterati e politici della vita romana di quegl’anni(da Cecchi a Zavattini, Morante, Saba, Moravia, Einaudi, Alicata ecc..). Anche Matacotta anni dopo ricostruirà in un manoscritto rimasto inedito, la sua storia con Sibilla, che chiamerà Bella. In Sibilla Aleramo e il suo tempo( idem sopra).
note bibliografiche*
Sibilla Aleramo e il suo tempo, vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli, 1981, edizione attualmente fuori commercio.
Bruna Conti, La donna e il femminismo di Sibilla Aleramo, Editori Riuniti, 1978.
Prefazione di Bruna Conti a Sibilla Aleramo, Gli anni di Una Donna, 1888-1902, di Pier Luigi Cavalieri, ed.Cattedrale, 2009.
Monika Antes, Amo dunque sono, Sibilla Aleramo pioniera del femminismo in Italia, Mauro Pagliai editore (libro dedicato a Bruna Conti).
MARILDE TRINCHERO
Marilde, iniziamo dal corpo della donna. In un passo del suo libro si legge “ un’ulteriore difficoltà, legata alla maternità è data dalla trasformazione che il modello ideale del corpo femminile, ha avuto negl’ultimi decenni.” Così sembra che anche la maternità debba fare i conti con i modelli imposti, ad esempio come dice lei, dal mondo dello spettacolo, dove attrici magari recuperano velocemente “il corpo di prima”. Quanto questo secondo lei può influire sulla sfera emotiva e psicologica di una neo-mamma?
Immaginiamo una donna che ha partorito da poco, che ha bruscamente variato il ritmo delle sue giornate, ora scandite dal ritmo veglia-sonno-cibo del neonato, questa donna è molto probabile che stia facendo i conti con il sonno interrotto, con l’emotività di un’esperienza forte, con qualche senso di inadeguatezza. La stessa donna non dedicherà molto tempo alla cura della sua persona poiché le cure del bambino occupano spazio e tempo. E’ molto probabile che il suo corpo abbia una forma che non è più quella della gravidanza né quella di prima, ed è altrettanto probabile che la donna sia concentrata sull’esperienza che sta vivendo più che non su eventuali chili da perdere, sul ventre piatto, sul seno tonico. A quel punto in una qualunque trasmissione televisiva viene intervistata una donna dello spettacolo che ha partorito da venti giorni. La signora in questione è riposata, truccata, e asciuttissima. La frase che di solito si sente come sottofondo è “come se non avesse partorito”. Difficile che la donna a casa riesca a fare mente locale sul numero di baby-sitter e personal trainer a disposizione della donna di spettacolo. Più probabile un confronto nel quale si vive come “perdente”. E questo mettere l’accento sul corpo di prima non fa altro che esasperare il tentativo di rimuovere i segni che il tempo e le esperienze naturalmente lasciano su di noi.
Nel suo libro emerge un aspetto della nascita, del parto, in cui la donna è sola ad affrontare questo momento misto tra “forza, amore, stupore, dolore e gioia tutt’insieme” (cfr.La solitudine delle madri). Come se vita e morte infondo fossero la medesima metafora umana.
Si potrebbe parlare di un paradosso della maternità, che porta in sé spinta e distacco al contempo?
Credo sia necessario e urgente lenire la solitudine che troppe donne vivono, spesso in silenzio, con vergogna e difficoltà a condividere ciò che è ancora troppo spesso indicibile, ma credo anche che esista una solitudine nel diventare madre che non si può lenire, che semplicemente va accettata perché fa parte dell’esperienza. Mettere al mondo qualcuno, farlo nascere, vuol dire che questo qualcuno un giorno morirà. Allo stesso tempo, una donna che partorisce – nasce – nel medesimo istante come madre, mentre muore una parte di lei: la donna non-madre che era prima. In questo senso il parto è l’evento durante il quale vita e morte si fondono in modo più potente.
Il mito di Demetra, dea delle messi, madre e nutrice, si scontra con interruzioni interiori post-partum, come ad esempio il maternity blues di cui lei parla, e più avanti nel suo libro emerge come il parto possa ri-portare alla luce dolori profondi legati alla storia famigliare.
Può considerarsi secondo lei l’atto di procreazione un territorio liminare per una donna, non più circoscritto al legame/rapporto madre/figlio? Come se il recidere il cordone ombelicale posso a volte riaprire ferite intime e assopite proprie della sensibilità e del mondo femminile?
C’è qualcosa di molto privato e soggettivo in ogni rapporto madre-figlio, accompagnato da qualcosa di archetipico, di collettivo, che avvolge – nel bene e nel male – la maternità. E’ come se il maternity blues si facesse carico di dare voce alle ombre del materno, maternity blues che a volte diventa depressione post-partum e per fortuna in casi rari, psicosi vera e propria. Diventare madre riattiva inevitabilmente tutta la storia con la propria di madre, e laddove ci sono state aree irrisolte, incomprensioni, assenze, abbandoni, invasioni, insomma tutta quell’area niente affatto prossima alla giusta distanza che sarebbe l’ideale in ogni relazione, è molto probabile che quella che era una brace quasi spenta si riaccenda di colpo portando con sé i contenuti del passato. E non è detto che si tratti di un passato recente, anzi, a volte è decisamente remoto, magari fino alla nonna o bisnonna. Diventare madre vuol dire fare i conti con la storia delle donne di famiglia, che lo si desideri o meno. Come se nello stesso istante in cui un cordone viene reciso per una nuova nascita, si aprisse uno spazio di continuità su cordoni ombelicali più antichi.
Un altro aspetto che tocca il suo lavoro è il rapporto e l’eros di coppia. La nascita di un figlio rimette in gioco le dinamiche di un unione. Quali secondo lei i benefici e quali, invece, le impasse, che possono scatenarsi dall’arrivo di un terzo? E ritiene che c’è un comune denominatore che caratterizza in maniera più diffusa il rapporto coppie/figlio, o ogni storia può considerarsi a sé, ogni storia vive quest’arrivo in maniera del tutto propria e personale?
La relazione madre, padre, figlio, figli è il risultato della somma dei componenti. I contenuti di ognuno si mescolano fino a formare uno specifico per ogni famiglia, che ovviamente ha però come sfondo dei denominatori comuni. Può essere per alcune famiglie più difficile fare i conti con il senso di responsabilità che il diventare genitori comporta. Per qualcuno è un compito più arduo fare i conti con fattori concreti quali per esempio la gestione pratica di un figlio: il tempo che questo comporta, la necessità di maggiori risorse economiche, i tempi da incastrare; per altre coppie la difficoltà è legata più a fattori emotivi, per esempio al fatto che le proprie parti piccole devono essere accantonate, almeno per un po’, a favore di qualcun altro. E non è detto che questo accada di più ai padri. Diffusa è la convinzione che sia un uomo a sentirsi “messo da parte” di fronte alle esigenze di un neonato, ma in realtà parecchie donne sono sofferenti di fronte a un uomo magari entrato in pieno nel ruolo del padre, ma che le considera meno come donne. La madre sovrasta la donna. In ogni caso l’eros attraversa un periodo di difficoltà, necessita di nuovi equilibri. Quando si trovano questi nuovi equilibri avviene il passaggio da coppia a famiglia, negli altri casi è il periodo in cui si apre la crisi della coppia. Crisi che a volte è occasione di crescita, a volte invece precipita in conflitti che possono portare alla separazione.
Il suo libro è ricco di passaggi e metafore “letterarie”, citazioni, stralci di brani da opere di grandi scrittrici come Virgina Woolf (per citarne una) e di storie, dalla poetessa Sylvia Plath alla pittrice Frida Khalo e ai miti, come Medea. Quanto maternità e creatività s’intrecciano e possono corrispondere? E quanto l’arte e le artiste (donne) possono fare da specchio, e raccontarci attraverso la loro vita e le loro opere l’essere donna e madre,sotto una luce similare e contigua, e magari essere “portavoci pubbliche” di un anima tutta femminile, in cui molte donne possono ritrovarsi e ri-scoprirsi ?
Una donna racconterà sempre la maternità in modo più completo di un uomo, e questo perché anche se non avesse figli, la relazione contigua con la propria madre le permette una memoria più autentica e completa. Non che non ci siano uomini che hanno trattato l’argomento, penso all’Annunciazione di Lorenzo Lotto (1528 circa), che si trova nel museo civico di Recanati. La Madonna non è affatto compunta e serena come appare in migliaia di altre Annunciazioni, anzi, è spaventata, e mette le mani avanti, voltando le spalle all’Angelo. Ma si tratta davvero di casi isolati e credo che la letteratura, la pittura e altre arti al femminile possano essere uno specchio importante in cui osservare ciò che a volte la ragione censura. Non dimentichiamo che in Italia, paese carente di politiche sociali sulla famiglia, la maternità è considerata una strada quasi obbligata e le pubblicità sulla famiglia raggiungono dei livelli di stereotipia che rasentano il ridicolo. Per quanto riguarda la maternità e la creatività, non solo si intrecciano, ma il loro intrecciarsi può declinarsi in modi parecchio diversi ed è il motivo per cui sento così importante riflettere su entrambe. A volte accade che solo dopo una maternità biologica una donna esprima altre forme di maternità/creatività, allo stesso modo in cui può accadere che la maternità biologica intrappoli troppo a lungo la donna in un materno da cui è poi difficile slegarsi. A discapito di altre forme di creatività che renderebbero la vita più piena e completa.
Un ultima domanda Marilde, che riguarda più l’aspetto legislativo e lavorativo.A Bruxelles la Comunità Europea discute rispetto la maternità, volendo cambiare le leggi vigenti e garantendo congedi più lunghi, meglio retribuiti, ed estesi a più categorie.Quali problematiche ha riscontrato lei – anche dalla sua esperienza -qui in Italia su questo tema, e quali aspetti andrebbero migliorati o cambiati in materia di rapporto lavoro/maternità?
Silvia Ferreri nel 2007 ha realizzato un documentario e scritto un libro nei quali si trovano testimonianze di donne sul tema maternità, lavoro e mobbing. Il titolo – Unavirgoladue – è dato dal tasso di fecondità delle donne italiane. Ora è leggermente aumentato – 1,4 circa – ma siamo lontani dai due figli per donna che garantirebbero il ricambio generazionale. L’esperienza che le donne raccontano nel documentario è tragicamente simile a quella di migliaia di donne: negli anni centrali della vita, quando tutto si concentra perché sono anni di crescita professionale, di desiderio di costruirsi una famiglia, e non sempre i nonni hanno voglia di fare i nonni (anzi, sono magari anziani e hanno a loro volta bisogno di cure), troppi datori di lavoro senza scrupoli, di fronte a una gravidanza, licenziano, o non rinnovano il contratto, gettando le famiglie in uno stato di insicurezza e precarietà ancor più deleterio in una fase della vita molto delicata. Si dovrebbe cominciare a ragionare in termini di congedo parentale più che non di congedo maternità, coinvolgendo di più i padri, e il part-time non dovrebbe essere quel miraggio che attualmente è; inoltre ci si dovrebbe ricordare che il costo che lo Stato e le aziende sostengono altro non è che un investimento per il futuro. Siamo un paese vecchio, nel quale l’età media è 44 anni. Se non si inizia a pensare a come aiutare le famiglie ad attraversare i primi mesi, i primi anni, non ne usciremo. La crescita di un figlio non può continuare ad essere a carico delle madri poiché le donne soccombono sotto questo peso, e la maternità deve smettere di essere una faccenda da donne, perché le donne da sole non possono e non devono garantire il futuro di tutti.
Marilde Trinchero è nata a Monticello d’Alba, il 19 luglio 1960. Vive e lavora ad Alba, dove si è trasferita nel 1992. E’ sposata, è madre di tre figli e svolge la professione di arte terapeuta. E’ stata per parecchi anni consulente al Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl di Alba, ma la maggior parte della sua attività la svolge nel laboratorio di arte terapia, dove in collaborazione con medici e psicologi, si occupa di riabilitazione, educazione, prevenzione, e creatività. Da alcuni anni, la scrittura è emersa dai cassetti in cui stava riposta, e dunque quella che dai tredici anni è stata una forma di creatività molto privata, è diventata pubblica attraverso una serie di esperienze. Nel 2005 ha scritto un libro a quattro mani con Daniela Minerdo: Cosa vuoi di più?- Edizioni Tracce- 2005. Due dei suoi racconti si sono classificati al secondo posto negli anni 2005 e 2006 al Premio Nazionale scrivere donna: La piroetta, e Dove le nuvole sono piene di sogni. Nel 2008 il racconto Le ore della notte è risultato primo classificato al Premio Europa Giallo noir, e sempre nel 2008 la Magi edizioni ha pubblicato il libro La solitudine delle madri. Con lo stesso nome del libro nel 2009 Marilde Trinchero ha aperto un blog. Il suo ultimo libro edito da Magi nel 2012 è Reclusioni di corpi e di menti
VIAGGIO NELL’OMOSESSUALITA’ FEMMINILE IN ITALIA
L’omosessualità femminile in Italia è assai diffusa ma molto nascosta, vissuta sempre in ombra e in timore da le donne, certo non bisognerebbe ricorrere a Freud e ai suoi studi sulla sessualità femminile, ma fu proprio il pioniere della psicologia del primo Novecento a dichiarare in questo saggio la natura bisessuale delle donne. Ad una comunità di donne omosessuali si è posta la domanda perché l’omosessualità femminile sia sempre poco dichiarata e vissuta apertamente. Queste le risposte.
– E se invece fosse una predisposizione insita nella donna? mi ci stavo arrovellando proprio giorni fa… questo non voler apparire, anche nelle mogli che sono bravissime a dar la precedenza al marito, a sacrificarsi per lui… mandarlo avanti, far carriera. Questo atteggiamento l’ho notato anche in coppie lesbiche ce n’e’ sempre una che se ne sta nell’ombra, per scelta, per una predisposizione sua caratteriale. Si abbiamo dei condizionamenti ma non mi spiego questo comportamento in generale della donna… tant’e’ che anche il movimento femminista tace ormai. Un gran can can in una determinata epoca e poi puff… Ecco mi domando… mi domando…
– grande dilemma sul quale molto spesso mi interrogo anche io…e purtoppo non riesco mai a darmi una risposta soddisfacente. La predominanza della cultura maschile è alla base anche di questa discriminazione nella discriminazione. Basti pensare alla cultura omosessuale (parlo di libri, film ecc ecc) dove c’è una netta maggioranza di storie gay, proprio perchè i “produttori” di queste storie sono in gran parte autori gay, registi gay, cantanti gay e via dicendo…
Dove sono le lesbiche?
Io credo che ci siano molte donne che hanno ancora il timore di dichiararsi, soprattutto in Italia, anche se ultimamente forse la situazione si sta sbloccando.
E comunque si Dale…è più difficile.
– Ma proprio questa è la domanda che dobbiamo porci… Perchè è difficile?!? Perchè siamo condizionate dalla societá maschilista o perchè la nostra natura è ritrosa e schiva?!? Aggiungerei che anche il fatto che gli uomini abbiano il sesso fuori e noi dentro possa influire sul modus operandi del nostro genere…?!?
– bel quesito questo, io credo che abbia a che fare con la sessualità,cioè un uomo non può fingere,non si smuove nulla diciamo senza scendere nel volgare, mentre una donna e ce ne sono molte sposate,possono fingere quando sono lì..si pensi al mestiere più antico del mondo ad esempio..quindi noi sappiamo e possiamo recitare un uomo no..la domanda è perchè continuiamo a recitare.
– (…) a volte mi sembra che tante donne dello spettacolo (visto che abbiamo citato la Nannini rimango nell’ambiente…) giochino con l’ambiguità e mi sembra anche che cerchino di trarne benefici…
Io nel mio piccolo non mi nascondo. Sono, di carattere, una persona piuttosto riservata ma sono dichiarata con tutte le persone che mi stanno intorno e non sempre è stato facile. Però, servirebbe davvero tanto che donne famose dimostrassero che non ci si deve nascondere.
– Ma perchè invece di puntare il dito verso le altre non si inizia NOI a vivere con spontaneità e chiarezza la nostra vita… Io ci metto nome e cognome sempre comunque…e voi?
– Secondo me l’omosessualità femminile è “naturalmente” più nascosta, perché in un mondo dove viene costantemente esercitato il “femminicidio” sia culturalmente sia effettivamente in quanto reato contro la persona, la donna omosessuale teme istintivamente per la propria sicurezza il doppio delle donne etero, cioè e in quanto donna e in quanto lesbica.
– E forse anche perché grazie al cinema porno, le donne lesbiche vengono viste dal mondo maschile come un qualcosa di eccitante??? A questo nessuno ci pensa? Ci sarà sicuramente tanta omofobia in giro, lo so, lo vedo, ne sono anche vittima, ma quando ad un uomo dichiari di essere lesbica… beh la reazione è sempre quella…. Non mi nascondo… sono quello che sono…ma siamo in un mondo maschilista… e non so se in italia le cose cambieranno mai..
INCONTRO CON LA FAMIGLIA TENCO
“ Non era una persona malinconica, amava scherzare Luigi, capiva tutto al volo, sentiva subito chi aveva di fronte o qual’era la situazione intorno a sé” questo uno dei tanti racconti su Luigi Tenco, dei suoi cari, dei suoi familiari, Graziella e Giuseppe Tenco durante il Terzo Memorial Piacentini dedicato proprio a Tenco. Luigi Tenco che aveva una grande passione per la fotografia, che “ scriveva sceneggiature” aveva una cinepresa, filmava, “ abbiamo ancora i suoi filmati” dice Giuseppe. E poi il suo cane Lilla, che Luigi amava molto, “ ma era spesso in giro” e quindi Lilla fu affidata ad una coppia. E la grande amicizia con Fabrizio De André, ricorda Graziella Tenco “ fu l’unico a venire al funerale di Luigi, insieme ad Anna la prima moglie di Gino Paoli”. E ancora De André che quando vinse il premio Tenco disse “ questo premio va a Luigi” e ricorda sempre Graziella consegnò il premio a loro. Luigi Tenco che forse era persona troppo seria e pulita per poter sopportare certe sporcizie del mondo della musica, “ un uomo di una grande sensibilità e generosità, aveva aiutato tutti i suoi amici”. E ancora un uomo riservato, che “ era assediato dalle donne, ma non si sapeva quali fossero i suoi amori” come cantava “ nella canzone Sono uno” afferma sempre Graziella. Le sue canzoni che propongono “temi che prima o poi nella vita ritroviamo tutti” Ed è importante per la sua famiglia, per la famiglia Tenco sapere che Luigi è stato riscoperto, è stata riscoperta la sua dolcezza e poesia, “ la sua figura non è più relegata al fatto di cronaca” del suo presunto suicidio il 27 Gennaio 1967 durante Sanremo. Un uomo, un poeta, una grandissima sensibilità, “ che sceglieva le parole, era attento alla scelte delle parole, cercava quelle che potessero essere più musicali” ricorda il Maestro Reverberi, amico e autore di alcuni testi insieme a Tenco. Concludiamo con le parole di De André in Preghiera in Gennaio a lui dedicata.
Lascia che sia fiorito
Signore, il suo sentiero
quando a te la sua anima
e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare
quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno
risplendono le stelle.
Quando attraverserà
l’ultimo vecchio ponte
ai suicidi dirà
baciandoli alla fronte
venite in Paradiso
là dove vado anch’io
perché non c’è l’inferno
nel mondo del buon Dio.
Fate che giunga a Voi
con le sue ossa stanche
seguito da migliaia
di quelle facce bianche
fate che a voi ritorni
fra i morti per oltraggio
che al cielo ed alla terra
mostrarono il coraggio.
Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
preferirono la morte.
Dio di misericordia
il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l’inferno esiste solo
per chi ne ha paura.
Meglio di lui nessuno
mai ti potrà indicare
gli errori di noi tutti
che puoi e vuoi salvare.
Ascolta la sua voce
che ormai canta nel vento
Dio di misericordia
vedrai, sarai contento.
Dio di misericordia
vedrai, sarai contento.
IOLE DE SIMONE
Iole, da poco è uscito il suo libro “ Il sistema culturale mafioso” edito da Bonnano, come nasce questo lavoro?
Il lavoro nasce da una ricerca commissionatami nel 2009 dal CE.S.A.P.S. (Centro di Studi di Azione Politica e Sociale) di Catania, centro per il quale lavoro dal 2005 in qualità di responsabile del Settore Ricerca. All’origine la ricerca era alquanto corposa ed è stata successivamente ridotta per una versione editoriale che permettesse una lettura scorrevole, non appesantita da tanti riferimenti e citazioni, soprattutto a carattere storico.
Il titolo racchiude in sé un aspetto importante, ovvero la mafia in quanto sistema, si potrebbe dire quindi che mafia e mafiosità vivono attraverso più agenti, persone, gruppi, appunto in quanto sistema.
Ha colto esattamente il centro del problema. C’è, a mio avviso, una interrelazione costante fra le diverse parti sociali e fra queste e l’ambiente sociale e politico in cui si ritrovano ad operare. Ciò significa, in poche parole, che la mafia (in quanto organizzazione), i mafiosi (in quanto persone) e la mafiosità (in quanto cultura della prevaricazione) agiscono da agenti inquinanti della società nel suo complesso e costringono anche la parte più sana della società in un circolo vizioso in cui non è possibile una vera forma, libera e democratica, di gestione della cosa pubblica.
Come pensi e quali ritieni siano i modi per combattere la mafia, la mafia intesa anche come pensiero, come modalità culturale appunto.
Cambiare la cultura di una società non è facile, soprattutto quando un modello si rivela vincente nei confronti di traguardi materialistici, quali i soldi e il potere. Più volte mi sono ritrovata ad auspicare una “presa di coscienza” da parte degli individui singoli e/o associati ma solo eventi eccezionali, quali alcuni sanguinosi delitti di mafia che hanno colpito magistrati e forze dell’ordine, hanno permesso, per brevi periodi, di elevare i cuori verso più nobili ideali. Col tempo, tutto passa nel dimenticatoio e non sconvolgono gli animi neanche i discorsi più recenti sulle trattative Mafia-Stato. Tra l’altro, non si guarda indietro alla Storia per scorgere i prodromi dello stato attuale in cui versa la società civile e per prefigurare un futuro migliore. L’alienazione forzosa, operata dall’ambiente, allontana da questo impegno attraverso strategie di distrazione di massa. Combattere la mafia, intesa come modalità culturale, si rivela una partita difficile: il singolo può lavorare su se stesso per cambiare il proprio modo di essere e migliorarsi ma sa che cambiare gli altri è impresa ardua per non dire impossibile. Solo con l’esempio si può ottenere qualcosa e questo è il compito che ogni educatore dovrebbe assumersi nei confronti di ogni piccola anima in cammino. La scuola, tuttavia, può fare ben poco in quelle realtà, degradate da un punto di vista sociale, dove per i bambini è normale avere un papà delinquente, spacciatore o killer. Queste famiglie, per le quali il delitto è l’unico mezzo per vivere, per fare soldi e per mettersi in evidenza così da ascendere lungo la scala sociale “mafiosa”, hanno nella donna l’agente riproduttore del sistema mafioso medesimo di cui i ragazzi ne sono vittime inconsapevoli che vengono educate al crimine, come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Oggi sembra che il sistema mafioso sia entrato ovunque, la cosa forse più grave vive nella testa della gente: raccomandazione, clientelismo, non meritocrazia, talenti in fuga, sintomi di questo modus operandi sociale, cosa ne pensi?
Il sistema in cui viviamo condiziona la gente con i metodi tipici della cultura della prevaricazione: chi ha “amici” va avanti, avere capacità di qualsiasi tipo è ininfluente per riuscire nella vita a meno che tali capacità non siano rivolte ad operare nella alegalità se non proprio nella illegalità. Ieri parlavo con un anziano medico che, per sfuggire al sistema clientelare e baronale della nostra sanità, ha trascorso quarant’anni negli U.S.A. e adesso che è in pensione ha deciso di tornare in Italia per svolgere funzioni legate al sociale. Va in giro facendo conferenze in cui parla di etica, meritocrazia, pace. Vent’anni fa, personalmente, ho scelto di non partire e devo confessare che è diventata una scelta quasi insostenibile nell’Italia di oggi. Cerco di fare quanto posso e, soprattutto, del mio meglio per formare giovani e meno giovani alla cultura di una legalità eticamente corretta, sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale.
La mafia o la mafiosità ribalta i valori, educa il mondo alla sopraffazione dell’altro, alla prepotenza, pensi che la scuola abbia delle responsabilità in tal senso? In quanto appunto veicolo educativo.
La scuola così come è attualmente strutturata fa quello che può ma più che all’educazione mi sembra dedita all’istruzione. Le maestre, ad esempio, soprattutto nei quartieri a rischio delle grandi città, non hanno mezzi per contrastare la cultura della sopraffazione. Ne andrebbe della loro sicurezza personale e verrebbero meno quei piccoli benefits derivanti dall’avere il figlio del mafioso in classe (tipo ritrovare l’auto rubata in meno di 24 ore, et similia). D’altronde come potrebbero delle maestrine impedire l’irruzione di uomini armati nella scuola per prelevare il figlio del boss all’orario di fine lezione? Non se ne parla nemmeno di avvisare le forze dell’ordine perché avrebbero ritorsioni. Spesso ripenso a quel vecchio film con Arthur Scharzheneigger “Un poliziotto alle elementari”, perché se la polizia mettesse tra il corpo docente dei poliziotti se ne scoprirebbero delle belle.
Non pensi che bisognerebbe iniziare a come dire “uccidere” metaforicamente parlando, la mafia presente ad esempio all’Università attraverso la formula del baronaggio, e quanto leggi e governi possono sanare questa situazione?
Il baronaggio nelle Università è la cosa, forse, meno grave che colpisce il nostro Paese ma si potrebbe cominciare giusto da quello per dare un colpo di coda a questa crisi, oramai decennale, del sistema economico e sociale italiano. Un tempo le nostre Università erano tra le migliori al mondo. Oggi, non più. Leggi più giuste, eque e solidali per la maggioranza dei cittadini invece che ad personam potrebbero fare il resto. Comunque sia, credo che non si deve uccidere la mafia ma trasformarla o, almeno, darle modo di trasformarsi, attraverso una specifica presa di coscienza, in qualcosa di meglio rispetto a quello che oggi è.
Mafia e stato sembrano coincidere. Le istituzioni non sembrano essere specchio di onestà e correttezza. Storia lontana, di mala-politica decennale, oggi pensi con l’attuale situazione politica qualcosa possa cambiare?
Se lo Stato eliminasse quelle sacche di povertà in cui pesca la mafia per arruolare individui da utilizzare per i suoi sporchi traffici ed eliminasse quelle sacche di degrado, sociale e culturale, in cui versa una parte della popolazione, resterebbe da “redimere“ solo quella parte di “società civile”, frutto degli ultimi centocinquant’anni di storia italiana: quella che discende dai notabili ottocenteschi e dai loro sottoposti che hanno fatto strada e carriera. Non dimentichiamoci che i figli dei mafiosi hanno studiato come i figli dei notabili, si sono laureati, hanno fatto carriera, soprattutto politica, oramai da generazioni. Oggi si parla di mafia “pulita” e il termine dovrebbe farci riflettere. Quelli che ci mostrano in televisione come i capi dei capi, non sono altro che sottoposti, strategicamente utili a mantenere una immagine costruita ad hoc di un fenomeno gestito da alte sfere e colletti bianchi. Per quanto venti di novità sconvolgano la politica odierna, presto nuovi equilibri saranno attuati e dipende solo da tutti noi il risultato finale.
CATERINA VETRO
Caterina se puoi spiegarci il Rainbow Guatemala Project, come nasce questo progetto, quali i suoi obiettivi e le sue finalità?
Rainbow Guatemala è il nostro urlo di speranza! Lo consideriamo il nostro progetto più ambizioso, quello più tosto.. è il progetto situato nella discarica di Coban, nella regione di Alta Verapaz, nel cuore del Guatemala.. è nato per passione, come tutti i progetti di questo tipo.. è nato da una mia visita in Guatemala in occasione di una pausa dai lavori in Belize (il nostro primo progetto, nato a fine 2010 per dare un futuro a bimbi orfani abusati e abbandonati). Quando sono arrivata in discarica, mi si è chiuso il cuore e lo stomaco per mezza giornata..e a fatica parlavo. Quando sono riuscita a riprender piena lucidità, ho chiamato subito in Italia dicendo che avremmo dovuto SUBITO fare qualcosa per aiutare questi bambini.. che vivono, studiano e lavorano in discarica. La loro vita è lì, e grazie a questo progetto e Comunidad Esperanza (la missione locale con cui collaboriamo in loco) ora hanno qualche speranza di vivere una vita più dignitosa e con diritti umani..cosa che prima non avevano..
Qualche anno fa è stata realizzata “Escuelita Feliz”, la piccola scuola della discarica che li accoglie durante il giorno per toglierli dal lavoro di piccoli riciclatori di rifiuti, dando loro una istruzione di base, preparatoria al sistema scolastico formale. Noi appoggiamo, insieme a SOS Bambini ONLUS di Milano, Escuelita Feliz e come Rainbow Guatemala abbiamo costruito nell’estate 2012 una piccola clinica ecologica a sacchi di terra destinata alla cure sanitarie e dentali dei bambini della discarica e le loro famiglie, i 400 bambini del collegio di Comunidad Esperanza e le migliaia di persone dei “barrios” circostanti, quartieri poverissimi, spesso baraccopoli. La clinica funziona benissimo, è stata accreditata dal Ministero della Salute e lavora a pieno ritmo: è stata un’emozione indescrivibile arrivare in visita alla clinica e vedere la fila di bambini che aspettavano di essere visitati! Questo lo considero un risultato grandioso, considerato soprattutto il fatto che nella cultura Maya non c’è forte propensione a farsi curare con la medicina occidentale.. ma non per pregiudizio. La maggior parte delle persone sono talmente indigenti da non potersi permettere di pagare cure sanitarie o medicine, per questo ci si rivolge ancora molto ai cosiddetti “Anziani”, che noi chiameremmo piuttosto “sciamani”, ma è giusto che sia ANCHE così per conservare le loro tradizioni..
Mi sono dilungata tralasciando uno degli aspetti più importanti dei progetti: i progetti Rainbow Guatemala, Belize e Cambogia sono nati 3 anni fa per volontà mia e di Pino Scotto, grande (per me immenso sia a livello umano che professionale) punto di riferimento della musica hard rock italiana, di cui è portavoce. Personalmente, dopo aver viaggiato per anni in vari paesi del mondo, ho avvertito questa sorta di “vocazione” a voler fare qualcosa di significativo per lenire le sofferenze di alcune delle moltissime persone povere che avevo incontrato lungo la mia strada. Grazie a Pino e a SMOM Onlus (Solidarietà Medico Odontoiatrica nel Mondo), che ci dà appoggio a livello istituzionale, abbiamo intrapreso questa meravigliosa avventura di solidarietà, e sinora abbiamo realizzato dei microprogetti cheper noi sono grandi sogni raggiunti..
Come concretamente agite sul territorio e aiutate soprattutto i bambini e le bambine?
Ci sono vari tipi di interventi che si attuano in questi progetti che noi chiamiamo di “educazione e sviluppo umano” nel caso della piccola scuola, e “socio-sanitari” nel caso della piccola clinica.
Attraverso la scuola della discarica non si fa solo educazione, ma si lavora sul bambino a 360 gradi: oltre al discorso educativo, ci sono vari e profondi significati sottesi: vengono forniti colazione e pranzo ai bambini, che altrimenti non mangerebbero o mangerebbero quel poco cui la famiglia è in grado di provvedere (generalmente mais e fagioli, una volta a settimana un pezzo di pollo..), si fa assistenza psicologica e legale: molti bambini non erano stati ancora iscritti al Registro Nazionale Delle Nascite, alcuni anche a 10-12 anni, dunque non avevano accesso al sistema scolastico formale nazionale né alle cure..praticamente erano invisibili, senza identità.. da maggio 2013 si è riusciti a sbrigare tutte le pratiche e FINALMENTE 5 di questi bambini possono finalmente frequentare la scuola formale, e sperare di avere un futuro più dignitoso!
Per quanto riguarda invece la piccola clinica, non si attuano solo visite ambulatoriali o servizi dentistici, ma si fa anche prevenzione della salute, piani di trattamento antiparassitario, somministrazione di vitamine, trattamento di pidocchi, e cosa molto bella ed importante dal mio punto di vista anche promozione della salute: a fianco della figura del dentista e dell’infermiere c’è infatti la figura del promotore di salute, che attraverso le sue conoscenze fa sensibilizzazione, prevenzione e promuove stili igienici e di vita più adattivi (es. comportamenti igienici come lavarsi le mani, durante e dopo rapporti sessuali, in gravidanza, stili nutrizionali più adeguati, ecc.). Come vedi, sono interventi a 360 gradi, perché i bisogni sono talmente basici.. quelli più fondamentali per l’uomo, che per noi sono sottintesi e scontati!
Qual’è la realtà e le condizioni di vita che avete trovato?
È difficilissimo esprimere a parole la molteplicità di sensazioni che si prova quando si arriva in discarica e si vedono centinaia di avvoltoi, cani rognosi, montagne di rifiuti e gente, e soprattutto BAMBINI che frugano tra la pattumiera MANI NUDE E SPESSO A PIEDI NUDI per trovare plastica, o cartone, o ancora lattine da vendere per guadagnarsi la cena.. odori, visi, sguardi, colori,.. il tutto è un insieme difficilmente esprimibile, ma è soprattutto il significato insito in ciò che si vede ad essere inaccettabile.. io faccio foto solo quando è strettamente necessario.. rispettare la dignità di queste persone che per scelta di disperazione passano la loro esistenza tra i rifiuti e si considerano essi stessi RIFIUTI DELLA SOCIETA’ è un fatto imprescindibile. Mi è capitato spesso di tirar via la macchian fotografica dalle meni di persone avide di “scoop”, perché in tanti mi chiedono di poter venire in discarica perché è una situazione estrema, e come tale fa notizia.. io preferisco agire quasi silenziosamente, perché NON SI Può E DNON SI DEVE SPECULARE SULLA MISERIA E SULLA SOFFERENZA UMANA..
Quanto il governo del Guatemala ha responsabilità della condizione indigente delle fasce minorili?
HA! Qui ci sarebbe da scrivere un intero libro, ma mettiamola così: OGNI GOVERNO E’ IN GRAN PARTE RESPONSABILE delle condizioni di indigenza! Guarda solo in quale situazione è l’Italia.. il Guatemala ha una storia di sangue che si perpetra nei secoli, prima era la guerra civile, ora il narcotraffico..è uno dei paesi più violenti al mondo (il quinto secondo agenzie internazionali), insieme a Messico, Honduras e Salvador.. Ogni anno ci sono migliaia di morti violente legate a crimini e narcotraffico.. sei tranquillamente su un bus nel centro città a Guatemala city, ad un tratto sale un passeggero che passeggero non è! Tira fuori la pistola e uccide l’autista (perché ci sono faide anche lì tra imprenditori..), poi ti rapina e se qualcuno si oppone ammazza pure quello/a!!
Insomma.. che modello è per i giovani un paese armato fino ai denti dove i bimbi giocano con fucili di plastica a 1 anno e il 90% della popolazione maschile ha un’arma più o meno piccola?? A Coban, dove operiamo noi, il Governo sta realizzando un progetto “città sicura”.. io sono rimasta sconvolta nel vedere la quantità ENORME di militari che presidiano le strade e i luoghi pubblici, 24 ore su 24. Perché non è come da noi, lì sono armati fino ai denti, con fucili a pompa e supergiubbotti antiproiettile. La quotidianità è quella.. tu sei in piazza a mangiare il pollo alla brace e sei circondato da militari, vai in un negozio a comprare una bibita idem, cammini per strada idem.. insomma per chi non è abituato è oltremodo INQUIETANTE!
C’è un modo in cui le persone posso sostenere il vostro progetto?
Ce ne sono tanti, come tanti sono i bisogni delle persone che stiamo sostenendo con il nostro progetto!! In passato abbiamo accolto volontari, che tuttora accogliamo a braccia aperte, ma tenendoli sempre all’erta sulla situazione socio-politica del paese. Non tutti se la sentono di esporsi a certi livelli di rischio per la propria sicurezza! In questa fase del progetto avremmo tantissimo bisogno di personale socio-sanitario, medico, dentistico che affianchi il personale locale nella clinica. Ovviamente bisogna sapere lo spagnolo..
In italia c’è tanto bisogno di promuovere e sensibilizzare, ma questo non lo dico solo per i nostri progetti, bensì in generale.. io da 10 anni mi batto per fare attivismo e divulgazione, ma mi rendo conto che la contingenza storica non lascia molto spazio mentale ai problemi gravi fuori porta..in Italia stiamo molto introiettando le problematiche economiche, politiche e sociali, e abbiamo perso un po’ di vista il disastro che sta accadendo in vari paesi in via di sviluppo.. mi ha fatto molta specie vedere come si sta affrontando la tematica della catastrofe e della ricostruzione nelle Filippine.. questo è solo il mio modesto parere ma diciamo che se paragoniamo la risonanza mediatica che ebbe lo Tsunami nel 2004 e l’uragano Katrina a New Orleans… beh non c’è paragone. Io ho lavorato in medio Oriente con l’ufficio della Cooperazione Italiana e lì ho capito COSA SIA REALMENTE LA GEOPOLITICA E I FILI CHE I GOVERNI TESSONO PER SOSTENERLA..
Comunque, tornando al discorso del supporto, c’è tanto e troppo da fare!!! Date un’occhiata al nostro sito www.rainbowprojects.it nella sezione “aiutaci”.. volontari, attivisti, sostenitori, promotori di eventi solidali!!! Rispondo a tutte le email (a volte tantissime!!) perché ho pieno rispetto della solidarietà altrui.. il tempo e talvolta il denaro che le persone dedicano ai nostri progetti per noi E’ SACRO!
CHANTAL CASTIGLIONE
Chantal come nasce il tuo libro di memoria e ricerca della verità, del periodo stragista, i così detti Anni di Piombo?
Il mio libro altro non è che la mia tesi di laurea magistrale. Mi sono laureata ad aprile in Scienze politiche presso l’Università della Calabria. Il mio scopo era quello di far memoria, portando alla conoscenza delle molte storie dimenticate e cancellate dalla memoria collettiva del nostro paese. Nel corso del mio studio mi sono imbattuta in persone speciali che mi hanno permesso di entrare nelle loro vite e nel loro dolore, penso a Lydia Franceschi, Claudia Pinelli e soprattutto a Carla Verbano. Sono storie che mi sono entrate dentro e non ne sono più uscite. La tesi come il libro li ho dedicati a Carla e Valerio Verbano e a tutti quelli che ancora lottano per appurare la verità.
Hai costruito il libro raccogliendo documenti e interviste? Se puoi spiegarci come è scritto e costruito?
Il libro va detto subito è un libro partigiano, di parte, volto ad indagare una certa famiglia politico ideologica quella della sinistra extraparlamentare. Consta di tre parti: la prima prettamente sociologica in cui passo in disamina varie teorie sul comportamento collettivo e i movimenti sociali. La seconda parte è la mia interpretazione del periodo che è stato fatto passare in maniera criminale, oscurando quanto di meglio quel periodo ha apportato alla nostra società, come Anni di piombo. Cerco di decostruire questa brutta definizione con la quale si vuole ammantare con un velo nero un periodo che fu invece di grande fervore creativo, di lotte, di conquiste, di ideali, il cosiddetto assalto al cielo da parte di tanti giovani. Un paragrafo l’ho dedicato a Carla e Valerio Verbano. Ci saremmo dovute incontrare con Carla ma il tempo ha giocato a nostro sfavore non ci siamo riuscite, lei se n’è andata il 5 giugno 2012 lasciando in me un grande vuoto. Ma è anche il periodo in cui l’eversione nera stringe patti con la ‘ndrangheta. Anche questo racconto nel mio libro. La terza e ultima parte è quella a cui sono molto legata: le interviste. Ho intervistato familiari delle vittime, protagonisti del periodo, giornalisti, scrittori sociologi e con loro ho cercato di approfondire aspetti diversi ma uniti da un unico filo conduttore, la ricerca della verità. Tra i miei intervistati: Claudia Pinelli, Lydia Franceschi, Franco Piperno, Silvano Agosti
Ritieni che su quegli anni si sia fatta luce abbastanza o c’è ancora molto altro da dire e da scoprire?
Su quegli anni di luce non se n’è fatta proprio, basti pensare che ad occultare tutto persiste uno scandaloso segreto di Stato. Sinceramente mi fanno ridere le promesse dei vari rappresentati istituzionali durante le cerimonie di commemorazione delle vittime nelle quali promettono un impegno per aprire gli archivi ancora secretati. E poi quel periodo a scuola non viene neppure studiato. Si sta attuando una cancellazione della memoria non solo individuale ma soprattutto collettiva. Vanno avanti i soliti luoghi comuni, una storia ufficiale, che di ufficiale ha solo il sangue di chi in quel periodo ha perso la vita in stragi o ammazzato dalle forze dell’ordine e dai neofascisti. Esiste una storia altra che merita di essere conosciuta, indagata.
Le responsabilità dello Stato italiano rispetto alla strategia della tensione non sono mai emerse con chiarezza e forza, tu cosa pensi?
Lo Stato è fautore e mandante delle stragi che insanguinarono il nostro paese anche se di volta in volta ha scelto chi utilizzare come proprio braccio armato: non solo neofascisti, forze dell’ordine, servizi, ma anche le mafie. Uno stato assassino che per l’autoconservazione del potere decide scientemente di sterminare i propri cittadini attraverso atti vili su cui ancora oggi non si sa la verità, ergendosi a boia e a giudice e auto-assolvendosi ogni volta. Uno Stato che nega queste verità non è uno stato democratico, ma uno stato autoritario i cui abitanti non sono cittadini ma sudditi della menzogna.
E quanta coscienza storica e politica secondo te ha il popolo italiano rispetto alle vicende degli anni 70′?
Il popolo italiano soprattutto nelle sue fasce giovani non ha alcuna coscienza storica e politica di quelli che furono gli anni Settanta. Si tende a dimenticare sopraffatti da quel potere edonistico dei consumi e dei media denunciato già all’epoca da Pasolini. Le persone e le giovani generazioni sono narcotizzate e assuefatte al sistema tv in cui è sempre meglio apparire che essere, in cui l’individualità non esiste più anzi è surclassata dall’omologazione a tutti i costi.
Franca Rame in una delle sue ultime interviste ritiene che quegli anni non siano mai finiti, condividi questo pensiero?
Lo condivido nella misura in cui ancora oggi siamo all’oscuro di tanti avvenimenti che quotidianamente ci vengono celati, in uno stato sempre e comunque solo di facciata democratico. Non vedo però movimenti capaci di inglobare e portare avanti le lotte. Non ci sono più ideali forti che servono da connettori tra gli individui che vedo al contrario sempre più soli e isolati. Ormai i movimenti attuali hanno il sapore dell’effimero tempo qualche mese e quello che era movimento svanisce o peggio ancora si istituzionalizza.
Obiettivi del tuo libro, memoria, ricerca della verità e anche informare le nuove generazioni?
Gli obiettivi del mio libro sono molteplici ma non me li sono prefissati dall’inizio del mio lavoro, sono giunti pian piano parola dopo parola, incontro dopo incontro, impattando contro storie che chiedevano di essere raccontate. Naturalmente ho scritto prima per me stessa, una necessità che pervade tutto il mio essere quella dello scrivere. Avevo voglia di raccontare e raccontare in un certo senso anche di me. Nonostante i miei 27 anni sento quegli anni che non ho vissuto come miei, bruciano sulla pelle come ferite mai rimarginate che sanguinano ogni qualvolta la “criminalità politica e intellettuale” del nostro paese getta fango su storie e vissuti collettivi. A me basta una canzone, uno slogan, un’immagine per ritrovarmi catapultata in quelle piazze. Naturalmente un punto fermo è quello di fare memoria e di ricercare la verità. Mi sono seduta a ragione dalla parte del “torto”, dei perdenti, dei dimenticati. Mi sono seduta accanto a loro, ho ascoltato i loro silenzi. I silenzi di coloro i quali hanno subìto la storia scritta da vincitori assassini e stragisti, che hanno cancellato con il loro meschino operato intere esistenze, interi vissuti restituendoci un paese senza memoria. Credo che ognuno di noi dovrebbe fare questo, decidendo di andare oltre, in direzione ostinata e contraria.
Un messaggio che vuoi dare ai giovani e non solo, anche con il tuo lavoro.
I giovani non si devono lasciare omologare e raggirare dal potere che li vuole ignoranti e disinteressati. Dobbiamo (mi ci metto anch’io) riprenderci i nostri spazi, i nostri vissuti e le nostre esperienze. Bisogna diventare partigiani della memoria. Dobbiamo creare le condizioni necessarie per una nuova Rivoluzione culturale e tentare nuovamente l’assalto al cielo.
OLGA BALTI
Olga tu racconti attraverso il tuo blog la tua esperienza personale che tratta di molestie che una donna subisce sul lavoro, come vivi questo fatto di raccontare pubblicamente una tua esperienza che tocca la tua intimità e dignità di donna?
Non è semplice, soprattutto ora che sono a un punto di snodo. Ma raccontare è stata anche fin da subito una forma di catarsi e anche un modo per aumentare il livello di consapevolezza rispetto a quanto mi era accaduto. Soltanto dalle apparenti minuzie si riesce a comprendere quanto una violenza possa penetrare nella carne di chi la subisce. Raccontando, leggendo i commenti dei lettori, rispondendo alle domande dei giornalisti, soffrendo per le critiche e le calunnie che mi sono arrivate, accade qualcosa di nuovo: la violenza diventa narrazione, diventa discorso, che fuoriesce da me ed entra nel mondo. Prima invece era tutto prigioniero dentro, era come se il mio corpo fosse avvolto da una pellicola impermeabile, incapace di fare uscire il dolore, la rabbia, la tristezza, il rammarico, il rancore, lo sconforto, il senso di colpa. Perché quello che si dice delle vittime di violenza è vero: c’è una parte che pensa sempre e comunque che avresti dovuto fare di più per cambiare la situazione e fare in modo che quel che è accaduto non accadesse.
L’Italia non è un paese per donne, questo emerge da recenti ricerche, il nuovo Presidente della Camera Boldrini lancia l’allarme su la violenza alle donne anche attraverso il web, come giornalista, ma anche donna, quali pensi possano essere strategie, punti di fuga e possibilità per un futuro come dire più “roseo”
In Italia lavora soltanto la metà delle donne. Questo dato da solo rende la portata della gravità del gap di genere di fronte a cui ci troviamo. Perché lavoro significa reddito che, come hanno detto molte donne del passato, rappresenta l’unico modo per potere riuscire ad essere libere. Se non si lavora e non si è ricche di famiglia (con una propria rendita), si devono chiedere i soldi all’uomo con cui si vive, che anche se sembra il migliore del mondo, attuerà una serie di strategie di oppressione. Questo accade anche alle donne che dipendono economicamente da altre donne perché sono in una relazione d’amore. Un bel film riguardo a questo è “I ragazzi stanno bene” (The kids are all right) con Julianne Moore e Annette Bening. Per migliorare la situazione bisogna fare in modo che tutte le donne abbiano accesso al reddito, attraverso il lavoro oppure attraverso il reddito di cittadinanza. Inoltre è necessario cambiare la cultura profondamente sessista e patriarcale che ancora ci invischia tutti e tutte. Ricordiamoci che anche le donne sono condizionate da questa cultura.
In un momento di crisi economica molto forte, la categoria più discriminata anche sul lavoro, è sempre quella femminile, le prime ad essere licenziate sono le donne, per non parlare della maternità, che mette a rischio il posto di lavoro, una politica, istituzioni in mano al mondo femminile come ci conferma il governo islandese guidato da una donna, secondo te aiuterebbero e risolverebbero la difficile situazione italiana?
Io non credo che le donne in quanto donne siano meglio degli uomini. Credo però che donne preparate su tematiche quali la parità di genere, l’educazione al genere, il diritto, siano fondamentali nei luoghi di potere. I Paesi del Nord riescono a mantenere un gap di genere inferiore al nostro perché donne competenti e consapevoli coprono molti ruoli di responsabilità. Per fare questo è stato fatto ricorso alle quote, senza tante inutili discussioni. Si è estesa la paternità agli uomini, rendendola qualcosa di conveniente, non come da noi che è ridicola. Purtroppo in Italia è andato per la maggiore un femminismo separatista, che riteneva che la politica così come si presentava non fosse cosa da donne, che le donne potessero creare una loro politica, cambiare la società da fuori. Un progetto che è fallito. Perché se non fosse fallito, a me e a tante altre donne che conoscono non sarebbero capitate le cose che racconto nel blog.
Se fosse una donna, chi vorresti come Presidente della Repubblica e chi come Presidente del consiglio?
Vorrei una donna come Audre Lorde, che in Italia pochi conoscono perché da noi i libri sul femminismo che all’estero spopolano vengono accuratamente scartati dalle case editrici. Per chi volesse saperne di più ecco il link a Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Audre_Lorde
Perché secondo te nel mondo femminile c’è così poca solidarietà tra le donne, spesso in antagonismo tra loro, e divise da invidie e gelosie, e dalla tua esperienza quale riscontro hai avuto?
Come dicevo prima, molte donne hanno introiettato il sessismo del sistema patriarcale che ancora permea la nostra società. Il patriarcato non è morto. E’ vivo e vegeto e noi donne più giovani – che non abbiamo il posto assicurato come invece hanno avuto molte donne che negli anni Settanta e Ottanta sono riuscite ad inserirsi in un mercato del lavoro ben diverso, che prevedeva tempi indeterminati e scale mobili – ne facciamo le spese. Le critiche più feroci al blog mi sono arrivate proprio da donne. Fare conoscere il blog non è stato facile, e ancora non lo è perché comunque da parte dei media c’è una forte resistenza (visto che parlo male del loro sistema). Ho cercato di contattare varie donne per chiedere loro aiuto nella diffusione. Nella maggior parte dei casi sono stata brutalmente ignorata, nonostante le email e le sollecitazioni. Come se il blog fosse un luogo mio. Ma non è così. E’ l’unico luogo in Italia dove si parla di violenza sul lavoro con una prospettiva di genere, anche se non è dichiarata.
Un messaggio che vorresti dare alle donne ma anche ai giovani
Non ho grandi messaggi di speranza. Quello che racconto nel blog è passato ma la mia vita non è particolarmente migliorata. Sono ancora precaria, dopo quel porco ne ho incontrato un altro, in un giornale di sinistra, di quelli che gridavano allo scandalo per Berlusconi, che pretendeva che uscissi a cena con lui per farmi pubblicare gli articoli. Conservo ancora le sue email. Ho parlato anche con un avvocato ma mi ha detto che non ci sono gli estremi per denunciarlo perché io andavo “consenziente” alle cene. Capisci che è sempre colpa mia? Che è sempre colpa nostra? Anche dopo questo secondo porco ho perso il lavoro. Ho cercato di ricostruirmi faticosamente, ma la situazione è difficile, il curriculum non vale nulla. Io a un giovane direi di imparare bene l’inglese e andarsene via. Questo Paese non merita altra sofferenza.
SALVO VITALE
Salvo, nel film di Marco Tullia Giordiana I Cento Passi è Salvo Vitale. Pronuncerà il discorso a Radio Aut tre giorni dopo la morte di Peppino Impastato. Questa intervista è stata fatta durante la presentazione dei libri di Salvo Vitale e Giorgio Di Vita a Giffoni, libri presentati nella sala François Truffaut del Giffoni Film Festival.
Intervista a Salvo Vitale, amico e compagno di Peppino Impastato presidente dell’Associazione a lui dedicata.
a cura di Dale Zaccaria
Con quali parole definirebbe Peppino Impastato?
“Peppino Impastato non è un eroe. Già in diverse occasioni lo abbiamo detto. È una persona che sull’onda del 68’ come molti di noi aveva, innanzitutto la capacità di ribellarsi, “ribellarsi è giusto” come dice Jean Paul Sartre, e un’ altra forte caratteristica di Peppino ma nostra, era soprattutto quella di essere anticonformisti, cioè di essere contro il conformismo borghese.”
Essere dei rivoluzionari in qualche modo.
“ Si. Condividevamo il concetto marxista che è appunto un concetto rivoluzionario e per noi il Partito Comunista ne aveva tradito in qualche modo l’essenza, preferendo una via elettorale per la conquista del potere. Quel modo di essere rivoluzionari si chiamava marxismo-lienilismo, ma noi avevamo uno sguardo rivolto più che a Mosca a Pechino e all’esperienza di Mao Tse Tung, che ci portava sostanzialmente a una sorta di rigenerazione, a una rilettura dell’umanità, ma questo è un discorso molto lungo.”
Cosa ha significato per lei ma anche per Peppino essere dei rivoluzionari in una piccola cittadina provinciale come Cinisi?
“ Tutti ci chiamavano Mao Mao. Una volta arrivò un pacco con trecento libretti di Mao Tse Tung, non sapevamo da dove fossero arrivati. Suppongo che ci li mandò lui in quanto sapeva che eravamo suoi fans. Noi ritagliammo la sua foto e la mettemmo sulla scheda elettorale. Mao prese sedici voti in quell’occasione. Come potete capire questo era il nostro modo di stare a sinistra, quello che ci ha sempre caratterizzato. Un modo comunque di essere fuori. Non essendo abituati all’idea del partito, essendo sostanzialmente dei movimentisti ci buttarono fuori. Così in un momento successivo abbiamo finito quasi tutti con il militare in Lotta Continua. Peppino Impastato aveva buoni rapporti con tutti gli esponenti anche a livello nazionale, soprattutto con Mauro Rostagno che tra il 1973 e 74’ venne in Sicilia a coordinare Lotta Continua, Peppino diceva sempre che “conosco Mauro è un compagno che mi da molta sicurezza”.
Lei ha continuato il percorso di Peppino Impastato anche dopo la sua morte, ha continuato a lottare a ricordare Peppino. In tutti questi anni che cosa ha maturato. Dall’esperienza di Radio Aut fino ad oggi?
“ Intanto sono passati trentatre anni dalla sua morte. Riguardando indietro, la capacità che aveva Peppino di leggere il territorio, di capirne i problemi e le speculazioni non è stata sostituibile. Non vivendo più io a Cinisi mi sono dedicato soprattutto all’aspetto culturale e pedagogico, nell’insegnamento e di formazioni dei ragazzi. Vivendo altrove, la capacità che aveva Peppino di capire e di organizzare immediatamente un movimento di lotta, di dare una risposta concreta nell’immediato non c’è stata più. Io ho proseguito la strada appunto, dicevo pedagogica, cercando poi di trasmettere ai ragazzi anche i valori che venivano dalla mia formazione politica con Peppino, ma i giovani è difficile poi trattenerli. Dopo i vent’anni capita spesso che non ti seguano più. Ho fatto una breve esperienza politica a Terrasini stando anche all’interno del consiglio comunale, ma poi son andato via, capendo che certe dinamiche e quella strada non mi apparteneva, stando così ai margini dello schieramento parlamentare, in cui non riesco a ritrovarmi. E’ andata avanti in me l’idea che l’intervento pedagogico di formazione dei ragazzi è fondamentale.”
Il trasmettere valori alle nuove generazioni è un atto fondamentale, quali le difficoltà?
“ Non è semplice. Perché i giovani possono incappare spesso nelle grinfie come dire mafiose. Nel momento in cui si cerca un lavoro o si tenta di affermare la propria professionalità, le proprie potenzialità ci si ritrova di fronte la strada che il politico e il mafioso possono offrirti. Posso dirvi che dalle mie analisi questo è un sistema nazista di assoluto controllo. E’ rubare il futuro. Quello che uno vuole e può essere. Quello che una persona vuole costruire attraverso le proprie capacità. In questo momento ho tre figli disoccupati proprio perché gli ho insegnato a non scendere a compromessi. E’ un prezzo politico altissimo. Cosa puoi fare con questa alternativa?”
Cos’è la mafia per lei?
“I mafiosi sono quelli che ti rubano il futuro. Il futuro che è propriamente nostro, quello che noi decidiamo di costruirci.”
Lei ritiene che la mafia sia un fatto anche culturale. Come nel film I Cento Passi quando Cesare Manzella grida nella piazza “dov’è questa mafia?, Io non la vedo”. E’ nella testa la mafia quindi delle persone?
“ E’ anche nella testa, appartiene a una formazione culturale e di modalità relazionali, ma nello stesso tempo la mafia si muove anche attraverso strategie economiche, di controllo del territorio.La cultura mafiosa appartiene oramai a intere classi sociali per non dire a buona parte della mentalità della gente. Mentre gli interessi mafiosi sono una cosa ben diversa. Hanno caratteristiche ben precise. La prima delle quali è questo bisogno di conservare lo status quo, cioè “il mondo è sempre stato così e non puoi essere tu a cambiarlo”. In questo contesto significa che i privilegi sociali devono restare tali e quali e se c’è la mafia tenersela. L’idea così di cambiare qualcosa diventa un’idea sovversiva. Peppino Impastato venne definito dalla commissione anti-mafia “uno non omogeneo al sistema” il sistema è quello che riconosce Gaetano Badalamenti come espressione della mentalità di Cinisi e non certo riconosceva Peppino.”
La risposta che diede la mamma di Peppino Impastato dopo la sua morte dicendo: “non voglio vendette”.
“ La risposta di Felicia fu una risposta civile. Di persona che in un contesto che non è quello mafioso vuole trasmettere il suo messaggio di civiltà, non tanto quello di credere passivamente nelle istituzioni – perché son dovuti passare ventidue anni perché la mamma di Peppino ricevesse giustizia.Felicia diceva spesso: “studiate, perché solo con la cultura si può distruggere la mafia.”
E quando la mafia pervade anche gli ambienti culturali, quando i meccanismi mafiosi si propongono in ambienti dove libri, poesia e arte, dovrebbero essere invece i muri e la falce di quest’erba malata? Come ad esempio occupare spazi di potere non per capacità e merito ma per vie di conoscenza e raccomandazione. Tutto questo come può essere combattuto?
“ Non c’è una ricetta secondo me. Se l’avessi sarei un profeta. C’è forse un discorso che è quello di scegliere se subire o ribellarsi. Ma ognuno di noi deve trovare dentro di sé la risposta di come sconfiggere certi meccanismi.”
Lei è anche un poeta. Ha scritto questo libro di poesia civile, “Arrangiamenti” edito da Navarra Editore quest’anno.
“ La poesia è messa ai margini in questo momento. Il mondo artistico procede più per immagini. L’immagine arriva più velocemente, mentre la parola ha bisogno di arrivare al cervello per trasformarsi in significato. La poesia poi dovrebbe trasmettere emozioni e spesso l’emozione viene considerata una cosa come dire “da bambini”, mentre invece le emozioni ci accompagnano costantemente e perderle per strade buie o macabre o per situazioni irrazionali e sterili dell’esistenza non può far si che produrre forme d’arte senza entusiasmi. La poesia ha una grande forza in tal senso e può essere uno strumento pericoloso. Le cose che circolano sono solo espedienti commerciali o comunque innocue, la poesia che può essere pericolosa viene messa hai margini. Perché il sistema cerca sempre, da quando esiste, di difendersi da voci scomode.”
Con Peppino leggevate molta poesia.
“ Molta si, Garcia Lorca, Jacques Prevert, Cesare Pavese e poi poeti della generazione Beat Americana, poi Peppino aveva il debole per i poeti francesi Apollinaire Rimbaud ecc…”
Il legame Peppino e Pasolini che emerge anche dal film I Cento Passi.
“Un legame forte e vero che c’era. Se venite a Cinisi tra i libri di Peppino c’erano quasi tutti i libri di Pier Paolo Pasolini. Una figura che lui seguiva. Anche i suoi film, che noi trasmettevamo all’epoca nel nostro cineforum di musica e cultura.”
Un messaggio che sente di dare ai giovani.
“ Quello di non farsi intrappolare da un binario dove ci son regole prestabilite e tracciate. Di non scendere mai a compromessi.”
INCONTRO CON ENRICO DI COLA
Franca Rame in una delle sue ultime interviste al Manifesto dice “siamo sicuri siano finiti quegli anni? Tira una brutta aria in questo paese.” Tu cosa pensi a tal proposito?
Il clima di quegli anni era ben diverso, gli anni sessanta hanno messo le basi della ribellione che poi è esplosa nel biennio ’68 – ’69.
Si assisteva ad un assalto al cielo da parte di grandi masse di sfruttati (lotte operaie e contadine) ma anche di un mare di studenti che con la riforma della scuola dell’obbligo si riversarono nelle aule delle scuole medie e universitarie, facendo esplodere tutte le contraddizioni esistenti. Furono gli anni delle culture alternative (beat, beatnik, figli dei fiori, provos…), della messa in discussione dell’oscurantismo della chiesa, dell’autoritarismo della famiglia, della rivoluzione sessuale, della musica, del teatro….nessun settore della società rimase indenne di fronte alle richieste di cambiamento. Perfino nella polizia e nell’esercito si iniziava a parlare di sindacalizzazione, di diritti.
Ma il nuovo non era ancora forte abbastanza ed il vecchio lottava rabbiosamente contro ogni cambiamento.
Rispetto al tuo vissuto e a quegli anni di utopia e rivoluzione
Il mio vivere quel periodo, il ricordo che ho più forte, è quello di “appartenenza”; di non essere solo, ma di far parte di una moltitudine che aveva i miei stessi sogni e bisogni di cambiamento radicale, totale della vecchia società. Nel ’68 io, che avevo da qualche anno iniziato a ribellarmi individualmente (capelli lunghi, fughe da casa….), improvvisamete mi trovai a non essere più solo, ma essere parte di una massa di persone come me. Fu una sensazione magnifica. Come ti dicevo non riesco a pensare a me come individuo durante quel periodo: manifestazioni, picchettaggi o riunioni del movimento studentesco quasi quotidianamente, andavo a scuola solo saltuariamente perchè sentivo la “rivoluzione” vicina, a portata di mano.
Dalle lotte della mia scuola si formò un gruppo di compagni e amici molto legati e in una decina di questi approdammo prima al circolo Bakunin e poi al 22 marzo. Lo spazio “individuale” era molto ristretto: andavamo a scuola assieme, andavamo assieme alle riunioni e manifestazioni, spesso – con le 100lire – si andava assieme a cena o a bere un bicchiere di vino. La mia vita di allora non riesco che a declinarla al plurale.
Ma quel clima gioioso era prossimo a scomparire rapidamente dalla mia vita. In pochissimi mesi, prima del 12 dicembre, successero molte cose che ruppero la gioia spensierata e portarono preoccupazioni serie sul futuro e quello che succedeva attorno a noi.
Un nome, un amico, un compagno: Pietro Valpreda
Pietro si era trasferito a Roma per sfuggire alla persecuzione della polizia a Milano. Lo conobbi al Bakunin. Fu un incontro cruciale sia dal punto di vista politico che umano. Poche ore dopo stavamo già organizzando lo sciopero della fame davanti al ‘Palazzaccio’. E fu forse questa nostra visibilità a focalizzare l’attenzione delle forze della repressione. Si intensificarono le persecuzioni poliziesche. Con Pietro venni fermato e identificato mentre passegiavamo per strada, venivamo seguiti, spiati, in continuazione.
Il gruppo (prima ancora di formarsi formalmente) venne fermato “preventivamente” e portato in questura (una decina di compagni) per impedirci di partecipare ad una manifestazione. La sera stessa, una volta rilasciati, io Pietro e Gargamelli venimmo aggrediti da fascisti a Trastevere e finimmo a Regina Coeli. Mentre ci trovavamo in galera un nostro giovane compagno (Fascetti) venne fermato e interrogato dai carabinieri come sospetto per un attentato, un altro compagno venne fermato a Firenze per controlli, io Pietro, Bagnoli e la Muky venimmo fermati (in cerca di esplosivi!) mentre ci recavamo in autostop a Reggio Calabria per una manifestazione di solidarietà a dei compagni (Casile e Aricò) che dovevano essere processati, io iniziai a ricevere strane telefonate minatorie a casa, macchine della polizia stazionavano spesso davanti i locali dove ci riunivamo o alla baracca in cui viveva Pietro….. : sentivamo che stava succedendo qualcosa contro di noi….
Ritieni che i compagni delle Brigate Rosse furono manipolati da ” giochi di potere”?
Non credo affatto che le Brigate Rosse siano state manipolate, se con questo termine vogliamo dire che ci fosse qualcuno che “tirava i fili”. Sono nate nelle lotte di quegli anni e – dopo i tentati golpe e la strage di Piazza Fontana – era quasi inevitabile che qualcuno facesse quel tipo di scelta. Dai libri letti, dai loro documenti, dalle veline dei vari servizi, dalla conoscenza diretta di alcuni di loro, non ho mai trovato nulla che possa far mettere in discussione questo mio convincimento.
Ci sono stati senza dubbio alcuni infiltrati, infami, venduti e ci sono state manovre sporche nei loro confronti, ma questo non scalfisce la loro storia e le loro scelte.
Il discorso è ovviamente molto complesso perchè bisognerebbe analizzare e smantellare punto per punto le diverse teorie complottistiche sbucate fuori in tuti questi anni. Ma questo non è cosa che spetta a me fare, sia perchè io non ero più in Italia in quegli anni, sia perchè – per correttezza – io preferisco parlare di cose che conosco perchè vissute in prima persona e non per sentito dire.
Ricordi di Franca Rame, se l’hai incontrata e quali sono?
Riguardo a Franca ricordo molto vagamente di averla incontrata nel ‘69 a Milano durante lo sciopero della fame che i compagni stavano portando avanti (davanti alla Camera del Lavoro se non erro), assiema a Dario e altri del loro gruppo teatrale. Non ho quindi ricordi da condividere. Non sono sicuro – non ricordo – se ci siamo mai scritti ai tempi di Soccorso Rosso (a Stoccolma avevo creato Crocenera/Soccorso Rosso) anche se sicuramente avevo rapporti con il loro gruppo di Milano. Dario invece lo incontrai in Svezia, quando venne appositamente per lanciare la campagna di informazione sui fatti di piazza Fontana ed in sostegno alla mia richiesta di asilo politico.
http://stragedistato.wordpress.com/2013/04/22/9-ottobre-1972-sid-su-partenza-dario-fo-per-stoccolma-per-sensibilirare-su-vicenda-valpreda/
Hai avuto delle divergenze di opinione ultimamente con Dario Fo e Franca?
Una mia recente – e molto dura – lettera aperta a Franca e Dario in risposta ad una loro intervista sul film di Giordana. L’ho scritta con molto dolore, ma non ho potuto agire altrimenti. Lettera che nulla toglie alla stima e affetto che provo per loro e per tutto quello che hanno fatto per noi. Sono sicuro che Franca avrebbe capito quel mio sfogo. (Tra l’altro quando Dario andò a Stoccolma per il Nobel, incontrò a lungo la mia compagna e con lei rinnovò il ricordo della nostra amicizia) Quanto alla lettera non credo che l’abbiano letta e comunque non ho mai avuto risposta.
http://www.umanitanova.org/n-14-anno-92/lettera-aperta-dario-fo-e-franca-rame
INCONTRO CON ENRIQUE IRAZOQUI IL CRISTO DI PASOLINI
Nel febbraio del 64′ andai a Firenze e a Roma come rappresentante del sindacato clandestino universitario di Barcellona per stabilire contatti con personaggi conosciuti in Italia che potessero venire da noi a dare conferenze contro il franchismo. Dopo aver conosciuto La Pira, Nenni, Pratolini e tanti altri, il pomeriggio prima di ritornare a Barcellona, Giorgio Manacorda, il figlio dello storico, mi disse che avevamo tempo per incontrare un tale Pasolini, poeta, di cui non avevo mai sentito parlare. Fissò l’appuntamento e poco dopo eravamo a casa sua. Aprì la porta Pier Paolo, che settimane dopo mi disse che in quell’ istante aveva capito che io ero il Cristo. Seduti in due divani della sua casa dell’ EUR, iniziai a parlare della nostra lotta antifascista e che avevamo bisogno di aiuto economico e personale. Intanto quell’uomo si alzava, girava intorno a me, si fermava, girava ancora, non ne capivo il perché, si sedeva e si alzava un’altra volta, incominciai a non sentirmi a mio agio. Finito il mio discorso, mi disse che sarebbe venuto a Barcellona, come poi fece in Novembre, e che forse io potevo fargli un favore: da due anni preparava un film sul Vangelo di Matteo e voleva che io interpretassi il Cristo. Un film! Di religione! Io!!! Io volevo fare la rivoluzione e francamente me ne fregavo del vangelo, del cristo e della religione, oppio dei popoli, l’ unica chiesa che illumina è quella che brucia, il Vaticano adorava Franco, era il nemico, dunque no, grazie, non m’interessava niente (dopo mi disse che a lui gli era piaciuta moltissimo questa risposta). Insomma, dopo avermi spiegato che sarebbe stato un film rivoluzionario, marxista come noi, raccontato in chiave epico-lirica nazional-popolare (Gramsci), dissi che era molto interessante, grazie, ma no, non volevo, ritornavo dai miei compagni. Allora si alzò e fece una telefonata chiedendo a qualcuno di venire subito subito. Così conobbi Elsa Morante, poi diventata la più grande e bellissima amica che ho mai avuto, che si era seduta accanto a me. Ma invece di convincermi, Elsa disse a Pier Paolo che non poteva fare quello a un attore di teatro tedesco che era già a Roma per firmare il contratto come Cristo del Vangelo, le sembrava male. Dunque Elsa voleva convincere lui, non me. Io non avevo mai visto una donna tanto strana, abituato com’ ero alle donne da parrucchiera e collane di perle. Poco dopo Elsa abbandonò la difesa dell’ attore tedesco e cercò di convincermi. No, non volevo, avevo cose importanti da fare, non dei film su Gesù, per piacere… Un’altra telefonata a non sapevo chi era, e arrivò Manolo Bolognini, il capo produzione di Alfredo Bini. Un mucchio di soldi, grandi alberghi, viaggi in prima classe, cosi via. Non m’interessava affatto ed ero già stufo a morte di perdere il tempo con quelle stupidaggini. Allora Giorgio Manacorda mi tradì dicendomi che avrei potuto così dare i soldi alla lotta clandestina che ne aveva tanto bisogno. Era ovviamente vero, aveva ragione, dovevo farlo, e anche se bestemmiando accettai.
Ci sono due lettere, di Pietro Nenni a Pier Paolo e di Pier Paolo a Nenni, meravigliandosi che quello studente antifascista accettò di fare il film per dare il danaro alla lotta. Quella sera Pier Paolo telefonò a Ninetto gridando “Ho trovato Gesù!” Poco fa, a Valencia, Ninetto e io abbiamo riso tanto parlando di quanto avvenne in quella giornata.
A proposito di quelle lettere, http://www.cinemagay.it/dosart.asp?ID=11487 , mentre Pier Paolo pensava che “tutto preso dal suo unico ossessivo sentimento, la lotta per la libertà, povero ragazzo, non percepiva neanche le mie parole, con cui timidamente cercavo di proporgli di lavorare con me (vergognandomi della sproporzione tra l´umile, ma immenso, idealismo per cui era venuto a trovarmi, e ciò che invece gli offrivo)”, io pensavo esattamente il contrario, che la sproporzione era tra la immensità della rivoluzione e la banalità di un film su Gesù.
(Chiedo scusa per la infamia del mio italiano)
*Si ringrazia Enrique per aver concesso di pubblicare qui ricordi e racconti del suo incontro con Pier Paolo Pasolini.
Comments are closed.